Guru Meditation #2: “Fattore temporale”

Potrei iniziare questo articolo con una massima scontata ma mai banale, appropriata ma ormai inflazionata:

Il tempo è relativo.

È una regola universale che vale anche nel mondo videoludico .

Titoli intramontabili come Super Mario Bros. scindono da qualsiasi vincolo temporale, perché eterni, sempreverdi.

Quando trent’anni fa venne rilasciato il primo storico Super Mario Bros. su Famicom (da noi in occidente conosciuto come NES), probabilmente non si era consci di come, quel mondo costellato di pixel celasse la formula di un elisir dell’immortalità, un algoritmo semplicemente perfetto di un gioco capace di intrattener e divertire tuttora, per quanto intanto di progressi se ne sono fatti parecchi dall’era dell’8-bit.

Siamo nell’era del videorealismo, del 4K, dei 60 fps, di tutte quelle terminologie tecniche di cui ci si riempie la bocca ma che in sostanza a nulla servono. Sono standard che ormai si pretendono e si danno per scontati, in una costante ed estenuante ricerca della perfezione grafica, divenuta oramai monomania fine a se stessa.

Ciò che conta è il divertimento e un gioco, per quanto virtualmente possa offrire un quantitativo incalcolabile di intrattenimento, finisce quando giunge la noia e la ripetitività. Torniamo dunque al fattore temporale, facendo delle distinzioni.

Esiste longevità e temporalità.

La longevità è relativa alla durata effettiva di un gioco, di quanto esso offra intrattenimento al giocatore, spesso concludendosi con i titoli di coda dell’avventura principale.

La temporalità è un concetto più romantico ed astratto: è la vita effettiva di un gioco, relativa all’interesse del pubblico.

Super Mario Bros. lo si può concludere anche in un pomeriggio (longevità) ma il suo fattore temporale lo rende un gioco che, per quanto potrebbe risultare antologico e desueto, possiede un fattore temporale che lo eleva ad essere, per l’appunto, intramontabile.

È un classico, e vale così per ogni forma d’arte: che si tratti di Dostoevskij per la letteratura o di Hitchcock per il cinema, anche i videogiochi non sfuggono al concetto di classico.

Parlando dei tempi odierni, il concetto di temporalità è piuttosto effimero, per quanto paradossale possa sembrarlo.

Rispetto al passato, le pubblicazioni videoludiche sono costanti, con release divenute oramai giornaliere, anche grazie al mercato indipendente e al mondo digitale, laddove prima non esisteva questa possibilità.

I videogiochi odierni si incentrano sulla giocabilità online, funzionalità che ha sempre esteso la longevità di un titolo e conseguenzialmente anche la sua temporalità.

Il paradosso sta proprio in questo; per quanto il gioco in rete dovrebbe concedere virtualmente un quantitativo di ore tendenti all’infinito, con tutte le possibilità e le funzionalità che mette a disposizione dei giocatori, subentra un fattore umano: la noia.

L’utenza è certamente cambiata e di conseguenza il mondo videoludico, che ruota sempre più velocemente. I videogiocatori sanno stufarsi presto anche di un sistema di gioco che dovrebbe poterli intrattenere a lungo. Eppure, il pubblico esigente, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, pur di soddisfare le proprie, cangianti esigenze, va altrove.

Perché?

Siamo una generazione incontentabile che vanta una libreria di titoli nauseantemente estesa, con tutti i prodotti acquistati con sufficienza durante gli sconti digitali. Impulsi di oniomania che ci hanno condotto ad aver anche centinaia di titoli senza saperli gestire, lasciandoli lì e giocandoci “quando si avrà tempo”. Chissà quanti di quei prodotti, magari acquistati anche con coscienza e sincero interesse saranno poi portati a termine e considerati, non si sa quando.

I progetti a “lungo termine” di un gioco online sono spesso traditi dalla stessa utenza che richiede longevità sui giochi in cui va ad investire, tra il prezzo del titolo in questione e i season pass truffaldini del caso, che poi inesorabilmente non può e/o non vuole più dedicar tempo al suddetto progetto. L’esempio lampante è The Division, con tutto l’hype che trascinò con sé come si confà ad Ubisoft nel presentare le sue perle, prodotti commerciali preconfezionati e propinati all’utenza media che spende, la stessa che annualmente fa la fila al Gamestop per Assassin’s Creed in quella che reputo una sindrome di Stoccolma inconscia. Il titolo della società francese propone un sistema di gioco unicamente online, con il progressivo sblocco delle aree di una NY serragliata e talebana. I primi mesi mi sembrano furono piuttosto prolifici per il gioco con una utenza presente ed attiva. Poi il tracollo. Ubisoft sembrava ambisse ad un progetto che si estendesse sul piano temporale come è riuscito ad Activision con Destiny, ormai giunto al terzo anno, con un pubblico sorprendentemente fedele. Una fedeltà tradita e malriposta, per quanto in The Division l’utenza sia tuttora presente e certamente se lo acquistate – o se lo possedete già, accendete la console – , non troverete un mondo deserto. Però, potrete constatare come l’utenza sia ridotta drasticamente rispetto ai primi mesi di gioco. Sembra però che non basti questa disponibilità, laddove invece The Division mantiene le sue funzionalità in game. Ma al pubblico non va più come prima di mettercisi sù. Perché? Perché si intrattiene con altro, perché il concetto di temporalità, per quanto è stato considerato nei piani di Ubisoft, è sfuggito, s’è dissipato.

Un mondo infame, ma che continua a puntare insistentemente sul multiplayer dove forse l’utenza gradirebbe incentrarsi sull’esperienza in singolo che forse a molti manca.

Laddove prima la funzionalità online era un servizio aggiunto ad un titolo che offriva il single player, ora è il contrario: l’esperienza in singolo è messa in secondo piano rispetto al gioco in rete con gli altri giocatori.

Forse è bene che si inizi a tornare sui propri passi, riproponendo esperienze individuali ai videogiocatori di cui si sente l’assenza. Le esperienze di gioco in rete sono senz’altro esaltanti ma hanno generato una generazione di videogiocatori competitivi che talvolta non sembrano saper gestire una formula di intrattenimento e di sfida così ampio.

Il multiplayer online ha certamente cambiato il mondo del videogioco, permettendoci di realizzare quel sogno inizialmente concretizzato da Sega col Saturn, prima console casalinga ad usufruire del servizio in rete per poter giocare con altre persone in tutto il mondo. Ora lo si da per scontato, ma il grande passo venne fatto oramai 20 anni fa dalla società giapponese. Un servizio adoperato da pochi all’epoca (considerando soprattutto una comparazione con l’utenza odierna) certo, però fu l’inizio di un percorso che permise ai giocatori di tutto il mondo di condividere le proprie esperienze videoludiche. Un sogno che forse è stato coltivato da ogni sviluppatore del settore prima di oggi, prima di Sega. Oggi è la consuetudine, la prassi, il naturale concetto di videogioco instillato nell’immaginifico collettivo, anche ai “babbani” che non sono addentrati nel mondo dell’intrattenimento elettronico. Eppure, per quanto sia straordinario, sembra non si abbia considerato di come avere un’utenza sempre attiva e presente su ogni progetto che proponga un servizio online non è possibile seppur, sorprendentemente, si riescano ad incontrare giocatori anche su server dimenticati. A me sembra che si generino deserti, lasciati incustoditi dopo anni di attività, di come si tenti di mantenerli attivi per quella poca, fedele utenza. Mondi estesi ed esplorabili abbandonati o disabitati. E di come, inesorabilmente, anche i titoli a cui giochiamo oggi, prima o poi verranno lasciati al caso. Il processo avviene velocemente, considerando come alcuni giochi, per quanto non vengano abbandonati, abbiano una temporalità limitata, perché la tendenza richiama l’attenzione e l’interesse su altri prodotti.

Capita anche che, un gioco uscito lo scorso anno sia già considerato relativamente “vecchio“. Succede che si dimentica in fretta, in un mondo videoludico che ci tartassa di informazioni e che guarda sempre al futuro, lasciandoci smarrire il concetto di temporalità.

 

 

Guru Meditation #1:”Pubblicità”

Ricordo, con una lacrimuccia che scende sul viso, l’epoca delle riviste di videogiochi.

Sì, so benissimo che vengono pubblicate ancora e che riescono a ritagliarsi tutt’oggi il loro piccolo spazietto edicola tra i periodici hi-tech da turbonerd 40 enni.

Ma il potere mediatico che avevano fino a 10 anni fa non era lontanamente paragonabile al ruolo marginale e ininfluente che ricoprono oggi.

Oramai, se si vuole conoscere il parere su un videogioco, ci basta cercar su Google, veder un voto su Metacritic o consultando i soliti siti specializzati e costruirci la nostra opinione, senza neanche leggere la recensione del gioco che ci “interessa“. Con un rapido sguardo, tramite un voto, abbiamo già deciso il destino di quel videogioco, se acquistarlo o no.

Magari si decide di prenderlo in sconto, prefissando già il prezzo che saremo disposti a pagare per averlo ed aggiungerlo nella kilometrica lista di giochi acquistati in digitale, comprati senza particolari attenzioni perché propinati a prezzi troppo allettanti.

Questo processo di giudizio potrebbe portarci direttamente ad effettuar una ricerca su Youtube, evitando di aprir pagine di siti specializzati, vedendo i video gameplay del titolo da sottoporre alla nostra superficiale analisi e bollandolo, non prestando neanche massima attenzione a quei pochi minuti in cui il gioco si mostra. Ancor più influente e repentino è il giudizio se si osserva il video dello Youtuber di fiducia, prendendo per oro colato ogni sua parola. Tutto ciò in un manciata di minuti. Abbiamo metabolizzato le informazioni ed elaborato una rassicurante ma approssimativa critica, quanto basta magari per sfoggiarla sui social network o i forum.

Purtroppo si fa presto  a bollare un titolo, senza neanche averlo provato, senza aver letto interamente una recensione o addirittura senza aver visto completamente un video del gameplay. All’epoca delle riviste videoludiche invece, si leggevano recensioni anche di giochi per cui non si nutriva particolare interesse, ma lo si faceva per onestà intellettuale o comunque per rimanere informati ed aggiornati, per sviluppare delle proprie considerazioni.

In una generazione ipertecnologica in cui è possibile effettuar questo processo di approssimazione anche dal cellulare con disarmante celerità e freddezza, ci si accorge di come l’utenza rischi di compromettere il processo creativo nel mondo videoludico. Infatti, non potete immaginare quanto potere possa aver anche un semplice like, se sommato alla moltitudine di altri milioni di utenti che hanno espresso la loro approvazione o dissenso tramite un solo click.

Anche la sola visualizzazione può contare, indipendentemente da quanta attenzione si sia prestata alla notizia o al teaser.

Ora, non è che ciò debba considerarsi un butterfly effect secondo cui, aprir un link di un video o no, condiziona il destino di suddetto prodotto.

Però, gli sviluppatori ripongono fiducia e danno particolare importanza al parere in rete. O quantomeno, anche se non sembra, può far prevedere l’ipotetico successo o flop commerciale di un titolo.

Un esempio di questa aggressione anonima e passiva è ciò che è accaduto a Federation Force. Presentato all’E3 del 2015, Federation Force ha la sola sfortuna di esser stato presentato ad una conferenza complessivamente deludente per l’utenza Nintendo e di esser un Metroid Prime senza Samus Aran. Tutti i fan aspettano da tempo il ritorno della cacciatrice di taglie intergalattica, da anni assente dai radar e di cui non si sa nulla su un capitolo che la riveda protagonista. La disapprovazione è stata sfogata dunque così, con un torrente di dislikes in una quantità considerevole rispetto agli apprezzamenti. Senza considerare poi i commenti che esprimono marcato disappunto, ampiamente non giustificato o per nulla argomentato.

Federation Force rischiò dunque, ancor prima della sua uscita, di esser un flop preannunciato e che conseguenzialmente potrebbe portar delle perdite alle casse di Nintendo.

Potrebbe sembrar esagerato ma in questo caso, il nuovo Metroid Prime ha rischiato il tracollo dal momento in cui si posiziona sullo scaffale dei negozi laddove la situazione di Nintendo, sul piano commerciale, sembra non è particolarmente rosea negli ultimi tempi (e parlo da aficionados della grande N). Ed effettivamente, oramai uscito nei negozi, Federation Force non rappresenta un successo commerciale, anzi.

Stessa situazione, ma ben più catastrofica, vede protagonista il prossimo Call of Duty che ha ricevuto milioni di pollici versi. In questo caso, rappresenta l’atto di coscienza di tutta quella utenza che, facendo capolino al Gamestop ogni anno per preordinare CoD e ritirando al momento dell’uscita lo stesso titolo dell’anno scorso, peggiorato (o divenuto più assurdo, dipende di pareri) ad ogni nuova pubblicazione, manifesta il proprio disappunto e la frustrazione di sborsar ogni volta 70€ per un facsimile dell’anno precedente appartenente ad una serie arrivata alla frutta. E l’esito delle vendite potrebbe risultar disastroso e affossar un brand che ha permesso ad Activision di rimpinguar considerevolmente il proprio portafogli con entrate sicure ogni anno.

L’utenza è dunque divenuta spietata, sfogando frustrazioni represse con queste forme passive di aggressione mediatica. Rassicurano e salvaguardano l’utente frustrato perché non implicano complicazioni e lo si fa dietro uno schermo. Una utenza che non si cura dei giudizi e che sente di potersi esprimere liberamente, indipendentemente dal peso del giudizio, elargendo con nonchalance commenti inappropriati.

Ci troviamo in una generazione in cui il pubblico è sovrano e l’industria dipende dai suoi capricci. In passato, era invece il contrario: le esigenze del consumatore erano conformi al prodotto che gli veniva fornito ma gli sviluppatori erano capaci di accontentare il pubblico. I giochi venivano fatti certamente per passione e anche per vendere ovviamente, ma si intraprendevano ugualmente percorsi inediti, inesplorati, tentando anche l’azzardo e cercando l’innovazione. Veniva chiesto ai giocatori di riporre fiducia e la fiducia era ripagata.

Ora l’utenza sembra screditar l’operato delle software house e gli sviluppatori, con calma zen, rispondono e lavorano umilmente per offrir un prodotto che possa accontentare un pubblico incontentabile. Mi sembra però che non ci si senta di reagire verso un pubblico pretenzioso ed esigente da cui le società dipendono. I fatturati sono composti da numeri che oramai non si possono più ignorare e il pubblico è sovrano.

In questa apocalittica visione, ci sono comunque molte realtà videludiche che hanno generato un legame armonioso con la propria utenza, ma si tratta pur sempre di società che sviluppano indipendentemente; isole felici dall’utenza pacifica che da il suo sostegno. Gli invasati della rete sono comunque sempre in agguato per screditare un titolo con la loro cultura spiccia.

Prima, l’ardua sentenza relativa al giudizio di un videogioco era responsabilità che spettava al settore mediatico e i lettori si affidavano alle proprie fonti. Per scegliere se acquistare un gioco, si leggeva la recensione, si guardavano gli screen stampati su carta e si immaginava. L’elemento immaginazione s’è completamente dissipato dal momento in cui si ha accesso alla rete e si possono osservare i gameplay di qualsiasi gioco, anche con playthrough che ci rivelano ogni anfratto di un titolo sottoposto a questa visione indiscreta. In un certo senso, questa possibilità rovina un po’ tutto. In passato, la scrupolosa selezione di un gioco avveniva con l’entusiasmo di far un salto nel vuoto, anche con un gioco che magari era stato ben giudicato, con tanto di voto altisonante ma che poteva comunque non piacerti e non convincerti. Era una scoperta, una sorpresa, verso l’ignoto o quel che comunque si presupponeva potesse offrire, a quel che s’era idealizzato leggendo la recensione. Trovo che questo fattore, correre il “rischio” pur affidandosi al proprio sesto senso, le considerazioni personali e il parere che si era costruito leggendo e raccogliendo pareri e informazioni vattelapescacome fosse ciò che davvero rendeva speciale ogni acquisto. Si andava in negozio, si vedeva il gioco nella vetrinetta, chiedevi al negoziante che apriva il vetro, lo faceva scorrere con un suono grattuggiante e ti prendeva quella custodia incellophanata, scintillante e finalmente lo vedevi al di là di quel confine etereo, idealizzato. Pagavi e te ne andavi a casa soddisfatto, entusiasta, spellicolandolo nel tragitto verso casa, non vedendo l’ora di giocarci.

Ora è davvero difficile vivere queste emozioni considerando che al momento dell’uscita di un gioco si conoscono vita, morte e miracoli, anche senza volerlo. Un web indiscreto e guastafeste che lascia trapelare ogni sorta di informazione e indiscrezione.

Vedete l’esempio di Pokémon Sole & Luna. Uscirà a Novembre ma praticamente si hanno nuove notizie ogni giorno al riguardo, di qualsiasi genere. Prima, per le info, dovevi attender ogni mese la rivista che usciva in edicola e magari, data la cadenza relativa alla pubblicazione e i tempi per la stampa, erano pure notizie “vecchie” o comunque non avevano l’immediatezza di oggi, abituati a considerar vecchie anche le notizie di ieri.

Un mondo videoludico che gira velocissimamente, che con i mezzi odierni permette certamente di esser sempre informati ma con una quantità soverchiante di notizie per lo più superflue, ridondanti e capaci anche di rivelar troppo, di guastar quel pizzico di magia che prima rendeva tutto più speciale, più vago, lasciando al giocatore il piacere della scoperta.