Recensione NO SPOILER Guardiani della Galassia Vol. 2

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Mi ero quasi dimenticato dei Guardiani della Galassia. Eppure, è tuttora il miglior film Marvel che io abbia visto.

Accorro in extremis al cinema per recuperarlo. Nessun hype ha accompagnato la sua uscita in sala: sarà perché, da parte mia, non punto mai sui sequel.

Avrei dovuto. E vi spiego perché.

Questo Vol. 2 è uno dei seguiti più azzeccati dell’universo Marvel. Si mischiano perfettamente azione e umorismo, in una sequenza di sketch che centellina perfettamente lo spazio da dedicare ai tanti protagonisti galattici. Il vasto e variopinto cast di eroi interplanetari è gestito egregiamente, godendoci le interazioni tra battute, small talks e le dissacranti ed inopportune risate di Drax. Chi aveva necessità di maggior caratterizzazione e di ricoprire un ruolo, laddove in un gruppo di eroi potrebbe essere difficile ritagliarsi la propria parte, è stato accontentato, con esecuzione brillante.

Ogni personaggio è capace di sfoggiare la battuta adeguata ed inaspettata al momento adatto, sorprendendo lo spettatore e strappandogli una risata. Seppur la trama non sia particolarmente strutturata, ci si godono più di due ore di intrattenimento senza accorgersene. Ci si libera del tono eroico e fumettistico degli Avengers, proponendo un approccio più sgangherato laddove gli autori possono sbizzarrirsi con maggior elasticità rispetto ad una continuity più rigorosa e solenne. I Guardiani della Galassia sono dei Vendicatori che non hanno regole, trastullandosi in una anarchia creativa che li rende spassosi ed imprevedibili rispetto agli eroi della Terra dalle loro tute attillatissime. Non per questo risultano una canzonatura od una pedissequa emulazione degli Avengers; è un gruppo distinto ed anzi, spicca di personalità e si contraddistingue anche più rispetto a Captain America, Thor ed Iron Man. Se siamo consci di cosa ci possiamo aspettare da Captain America, eroe iconico e ligio al dovere , non sappiamo invece come possa comportarsi un personaggio imprevedibile come Rocket Raccoon o Drax, privi di regole e di raziocinio. E il risultato è sempre pirotecnico ed esilarante.

Notevole implemento di effetti speciali e della computer grafica, copiosamente presente con scenari davvero impressionanti. Anche il comparto fantascientifico è ben strutturato, iniziando a definire l’infinito universo cosmico della Marvel.

Le guest star presenti nel film generano un perfetto mix nostalgico, amalgamandosi perfettamente nell’universo Marvel.

Kurt Russell sarà il papà di Peter Quill -alias Star Lord -, che per tutti questi anni lo ha cercato nei meandri più reconditi dell’universo. Avrà però molto da dover chiarire col figlio, dato che lo abbandonò a Yondu, oltre ad aver lasciato la madre al suo triste destino.

Sylvester Stallone sarà Star Hawk, importante e rispettato membro dei Ravagers che ha un conto in sospeso con Yondu.

La presenza di questi big impreziosisce ancor più la pellicola, che non figurano come ridicole comparsate come spesso accade in queste operazioni bensì risultano elementi di spicco, esaltando i personaggi secondari, facendogli acquisire spessore con la loro interpretazione.

Tantissime le catchy phrases che ripeterete dopo la visione, per un umorismo che coinvolgerà anche i più piccoli e che darà sfogo a quella comicità liberatoria e necessaria per loro, con battute che, pur avendo elementi che potremmo definire volgari, sono integrati così adeguatamente che i genitori non si vergogneranno od allarmeranno per qualche parolaccia o riferimenti inopportuni agli organi genitali di Drax. 

Ma soprattutto: non è irresistibile Baby Groot?

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In conclusione, quello dei Guardiani è un ritorno col botto e non era impresa facile riuscire ad eguagliare la spettacolarità dell’esordio. Qui si sono davvero superati, arricchendo di elementi un film che riesce, nella sua baraonda, a gestire ed equilibrare azione, comicità ed emozioni. L’ennesima conferma che gli outsiders della Marvel sono capaci di stupire e proporre un prodotto alternativo ai supereroi più blasonati.

 

Divertimento garantito.

P.S. Anche se sembrerà scontato, rimanete fino ai titoli di coda. Vi godrete più di una spassosa sequenza!

Recensioni inutili: Latte di unicorno

Bastano colori sgargianti e stelline di zucchero per attirarmi. Cado nel trappolone poi se a tale creazione gli si appioppa un nome che solletichi il mio lato più ingenuo, mistico e puerile.

Il latte di unicorno è la novità salutista del momento. Niente “zucchero, cannella ed ogni cosa bella!”, a discapito di quel che si potrebbe immaginare ed idealizzare da un drink che porta un nome così spumeggiante.

Latte di cocco, curcuma, zenzero, miele e non so quale altro mistico ed inaspettato ingrediente compongono questo magico intruglio. Mi furono detti ieri, in un euforico spiegone da parte del proprietario, che dopo Breaking Bad, ha trovato la sua nuova fonte di sfogo ed entusiasmo nel divenire il Walter White del salutismo. Purtroppo non riuscii a seguirlo in quel che divenne, dopo una manciata di parsec, un soliloquio di cui divenni spettatore passivo, di per sé confuso già dalla presentazione dell’accozzaglia smeraldata che mi fu portata al tavolo.

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Schiumoso in superficie, sorprende il colore vivido, apparentemente invitante, tanto da sembrare una bevanda della Melevisione. Ti aspetti, da un momento all’altro, che parta Il ballo del melastico con Lupo Lucio, Fata Lina e Tonio Cartonio. Al primo assaggio, si percepisce un sapore neutro. Si inizia a millantare il proprietario, che ha fatto schizzare l’hype alle stelle con i suoi roboanti preamboli. In realtà, ad ogni scannucciata si scoprono sapori diversi, carpiti dalle papille gustative e sollecitati dalla curiosità e la scoperta. Si percepisce la curcuma, la consistenza del latte di cocco, il pizzico di zenzero sul finale. Si tratta di esplorare una foresta incantata di benessere interiore, in cui, ad ogni assaggio, si scopre un nuovo sapore che instaura in noi energie positivissime. È un concentrato di cose che fanno bene, che ti invogliano ad eseguire una serie di squat e che ti fanno pentire di aver mangiato due piatti di pasta la sera prima. Pensieri che svaniscono poco dopo, non vi preoccupate.

In conclusione, non è propriamente quel che ti aspetteresti di bere ordinando un latte di unicorno, tant’è che, assieme ad i miei amici, stiamo progettando una nostra, personale formula più zuccherosa, sfavillante e magica, che sappia rappresentare la natura arcobaleneggiante della mistica creatura, progettando un fantasticoso miscuglio diabetico in cui ci sbizzarriremo con topping, marshmellow e una correzione alcolica a loro insaputa.

E poi oh, vabbè che è latte di unicorno, ti purifica il colon etc. ma non sono abituato a farmi infinocchiare 5 euri per un drink così.

Resoconto film visti a Febbraio duemiladiciassette (parte 1)

Questo mese ci ho dato sotto. Per questo motivo, dividerò il post in più parti. Tanti film del passato, oltre ad un timido tentativo di recupero dei film del 2016. Solo 2 i film visti al cinema: Manchester by the sea e La La Land.

 

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La vita di Oharu, donna galante (1952)

Filmone di Mizoguchi, regista che, assieme a Ozu e Kurosawa, componeva il tridente del cinema giapponese. Facendo una metafora calcistica, nella trittica offensiva del Barça, Mizoguchi sarebbe Neymar, finalizzatore di classe con giocate brasileire. Fosse uno starter dei Pokémon di prima generazione, direi Bulbasaur. Della seconda, Chicorita. E via dicendo.

Riguardo il film, Oharu è la Cenerentola del periodo Edo. Da donna di corte, viene esiliata da Kyoto per aver una relazione con un paggio (un giovane Toshiro Mifune, mica pizza e fichi). Lui, verrà decapitato per tale oltraggio. Da qui, alla donna ne accadranno tante: diverrà concubina del re, prostituta, donna di servizio, si sposerà e diverrà vedova ed addirittura aspirante monaca. Non in quest’ordine.

Essenzialità alla cinepresa, asettica espressività. Tra i 3, Mizoguchi trova più affinità con Suarez  (Kurosawa, attaccante di sfondamento).

P.S. Ma allora Ozu è addirittura il Messi del cinema giapponese? Devo pensarci.

Voto: 8/10

 

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Manchester by the Sea (2016)

Forse meriterebbe una recensione a parte ma preferisco impiegare le mie energie cerebrali per parlarvi di TUTTI i film visti a Febbraio. Anche se, Manchester by the sea è più un film da discussione forbita post-visione, tra quei guru del cinema cinquantenni, con la giacca con le toppe sul gomito che odora di moquette, col giornale sottobraccio. Quelli che tossiscono in sala durante il film un paio di volte. Dunque, diciamo che si presterebbe ad una rece che non leggerebbe nessuno.

Il film intanto s’è accaparrano due Oscar – uno per miglior sceneggiatura originale, l’altro andato a Casey Affleck come miglior attore protagonista – e ho voluto appurare se effettivamente fossero meritati. Partendo dal presupposto che per me è stato un anno sottotono per il cinema, direi che ci potrebbero anche stare le assegnazioni. Casey è bravo nella sua inespressività da tronco di betulla. Trovo che dopotutto non sia facile essere espressivamente inespressivi, tra apatia, inadeguatezza, depressione mai apertamente manifestata ma percepita dallo spettatore. Il film è un dramma, di quelli veri, che fa capire il motivo per cui il protagonista abbia smesso di reagire, di vivere. Forse un po’ confusionario nel mostrare vita passata e presente.

Bisogna essere nel mood adatto per vederlo, sennò rischiate di abbioccarvi.

Voto: 6/10

Se vi trastullate col montaggio analogico: 7/10

 

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The Handmaiden  (2016)

Park-Chan Wook chiude la trilogia  dell’erotismo con il suo film più ambizioso.  Dopo Blue is the warmest color e quella zozzeria di Nymphomaniac, si è abbattuto ogni tabù sul sesso mostrato al pubblico. Alla Lars Von Trier insomma. Raffinato, libidinoso ed estremamente sensuale. Ma il regista coreano mostra di avere esperienza e sensibilità alla cinepresa per rappresentare esperienze saffiche senza volgarità, senza generar disagio allo spettatore. Il sesso diviene (È) arte. Fuga d’amore sofferta e sentita, affascinante e da inaspettati risvolti narrativi, con costanti cambi di copione, azzeccatissimi.

Attualmente miglior film del 2016 che io abbia visto finora (anche se devo recuperarne altri) nonché – allargamose, va’ – una delle pellicole più complete degli ultimi anni.

Voto: 8/10

 

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Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza (2014)

Seguii il trionfo di Roy Andersson, regista svedese dalla lunga carriera, a cui vennero riconosciuti i meriti e il contributo nel mondo del cinema soltanto a 70 anni suonati con il Leone d’Oro a Venezia. Per quanto io, lo ammetto, non conoscessi la persona, questa premiazione mi coinvolse ma non ebbi purtroppo occasione di vedere il suo film.

Rimedio soltanto ora, vedendo un film senz’altro curioso e particolare. Fotografia asettica, perfetta nella sua essenzialità che conferma la presenza di un occhio esperto dietro la macchina da presa. Situazioni paradossali, talvolta surreali, di un mondo in scatola. Una serie di episodi apparentemente disconnessioni tra di loro ma collegati dai personaggi, gli eventi e una chiamata che accomuna i suoi protagonisti ed evidenzia il principio di incomunicabilità.

Andersson ha un umorismo estremamente sottile, difficile da cogliere perché composto da freddure, da poche battute, di situazioni talvolta indecifrabili. In alcuni casi si ha la sensazione di non comprendere ciò che si vede, di non riuscire ad afferrare quella grande sapienza cinematografica offertaci dall’erudito ma umilissimo regista scandinavo, attraverso il suo personale linguaggio.

Voto: Un ingiusto 6 ma direi 7 / 10

 

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Ladri di Biciclette (1948)

Disarmante appurare come i problemi che affliggevano il nostro paese quasi 70 anni fa siano presenti tutt’oggi, seppur in un altro contesto storico. Forse, ancor più grave, è riconoscere che la questione relativa al lavoro sia ancora irrisolta, la povertà aumenti pur trovandoci in un’epoca di relativa benestanza.

Il messaggio di Vittorio De Sica, nell’immortalare una Roma di borgata, in fase di ripresa e riassestamento nel dopoguerra, giunge schietto e diretto allo spettatore anche grazie ad una interpretazione sincera, un linguaggio dialettico e attori presi dalla strada che costruiscono un contesto privo del misticismo cinematografico.

Ladri di Biciclette non è un film neorealista. È il neorealismo. Quello del popolo, della gente, di tutti.

E il finale poi… che ve lo dico a fa’.

(Ma tanto lo sapete già)

Voto: obbligatoriamente 10/10

 

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Un condannato a morte è fuggito (1956)

I presupposti sono gli stessi che anticiparono la visione de L’avventura di Antonioni: un film su cui il circolino del cinematografò ci si sbrodola ma che, a noi comuni mortali, ammettiamolo, ha generato narcolessia seguita dalla reazione fantozziana dopo La Corazzata Potemkin. Quel film che dunque, per essere veramente apprezzato, richiede preparazione e studio, oltre che passione.

Non è da meno Un condannato a morte è fuggito. Dovunque cerchiate, leggerete di critici entusiasti ed inebriati dalla visione, considerandolo di trascendentale importanza per la storia del cinema.

Non ne dubitiamo. Peccato che, per quanto io abbia letto numerose critiche del film ed ho compreso la sua influenza, sia riuscito a contestualizzarlo, per me rimane un film noioso.

Non me ne voglia nessuno.

Tu, studente fuori corso del Dams fintoborghese coi rasta che vuoi sindacare a ciò che ho detto, statte bono.

Voto: 6 ore dormite su 2 di durata del film.

Scherzone, 6/10 perché dopotutto il cinema mi piace e non posso troncare o come film.

La prima parte del riepilogone si chiude qui. Accendete il bollitore per il thè perché presto potrete leggere la seconda carrellata di film.

Paolo Fox mi hai deluso.

Paolo Fox auspicava una domenica a 5 stelle. Fortuna, amore e lavoro. Per me e tutti gli Acquario.

Giunge dunque, non senza aspettative accresciute dalle previsioni indicate dalla stecchetta da meteorologo al programma di Magalli, una domenica per cui si spera di non esser vittima del torpore e l’avvilimento che contraddistingue l’ultimo giorno della settimana. Almeno stavolta.

Contentissimo, chiamo pure una mia amica per dirglielo. Lei, Bilancia, domenica da 5 stelle come me.

I presupposti ci sono tutti: carbonara e lattina da un litro di Faxe, saggiamente acquistata la notte prima al Carrefour 24/7 della stazione sapendo che gli astri avranno bisogno di carburante per far confluire energie positive in questa Domenica.

Preparo la carbonara. Guanciale pepato tagliato a cubetti da un metro quadro. Due uova. Tocco di parmigiano. Bucatino. Stappo la lattina da superuomo. La verso dentro al boccale da Oktoberfest. Ignorantissimo.

Paoletto c’ha azzeccato. Tutto perfetto. Per ora.

Mi allontano un attimo dai fornelli.

Torno.

Panico.

Frittata in padella e bucatino semicrudo.

Neanche la tovaglietta di Spongebob mi tira sù. Nemmeno Patrizio Roversi con Linea Verde che me fa vedè le coltivazioni de lattuga.

C’è pure la pila di piatti da lavare perché ho zozzato tremila padelle e posate. Torreggia minacciosa dietro di me manco fosse l’occhio di Mordor nella Terra di Mezzo.

Domenica da 3 e mezzo. Ma ancora non è finita. Chissà.

La mia amica Bilancia intanto, prende il sole sulla Tiburtina e mangia i rigatoni direttamente nel pentolino. Fa pure la scarpetta. Progetta di rotolarsi sul prato nel pomeriggio.

Lei sì che si gode la vita. Una domenica a 5 stelle.

 

Vaffanculo Socrate.

Stamane mi alzo con il consueto dubbio riguardo la colazione.

Lunghi, interminabili atti di contemplazione della dispensa tra savoiardi del discount e ginseng solubile.

Oggi ho detto “no”. Mi sono opposto.

Decido di andare alla bakery, luogo che sembra una bomboniera da comunione con quel rassicurante ed innocente tono radical chic. L’orologio londinese, la carta da parati a righe verdi tipo tavola calda americana, la frase di Forrest Gump stampata sul muro che veglia sulle menti dei trancugiatori di dolci come diabetico assioma.

Prima di uscire, sento il peso della responsabilità della cultura.

Il mattone di Socrate, tra Simposio, Apologia e Critone grava come il cinghiale dello spot Brioschi sulla mia coscienza. Mi osserva dal comodino.

Che non lo porto con me er vecchiaccio?

Irrompe mia madre che mi vede tentar di infilare nella tasca del giacchetto Socrate, manco fosse un giornaletto zozzo.

“Ma ndo vai a fa’ l’hipster? ”

Questa sentenza mi arriva come una tegola sui denti.

Lo prendo dalla saccoccia del giubbotto, dove manco entrava tutto, sbucando fuori con quel mosaico da vespasiano in copertina.

“Ma che sto a fa’? Devo andà a fa’ colazione!”

Lancio Socrate sulla scrivania.

“‘fanculo Socrate. Vaffanculo Socrate. Vaffanculo.”

Lo dico tre volte, temendo quasi che potesse comparire davanti a me tipo Beetlejuice pe damme uno schiaffo morale che mi avrebbe portato a confutare ogni singolo pensiero.

No, vecchio pederasta, te ne stai a casa oggi.

Io vado a magnà i pancakes, ciao.

Il finale di La La Land: perché la vita, dopotutto, va avanti (ed è una cosa favolosa)

Attenzione: il testo che segue contiene spoiler sul film. Vi prego dunque di non leggerlo e di godervi le emozioni, la sorpresa e la scoperta direttamente al cinema e non tramite il mio articolo.

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È stato un lieto fine. Necessario.
Forse lo affermo sconsideratamente ma per me non poteva andare in maniera diversa.

La sequenza finale in cui viene ripercorsa la loro relazione, fossero andati diversamente gli eventi, non è stata triste ma emozionante. Di visionaria bellezza.
Concede al pubblico la possibilità di scegliere. Gli mostra un altro sviluppo, un’altra conclusione.

Io non mi soffermerei sulla loro rottura ma sul fatto che entrambi, con il supporto reciproco, siano riusciti a credere e realizzare i propri sogni.
Può, la concretizzazione di essi, essere un finale triste?
Ci viene mostrato cos’è l’amore, in tutta la sua magia e spensieratezza.
Ci viene anche mostrata però, la realtà. E la realtà sa fare male.
Tutto ha fine, nulla è eterno… ma ciò non è necessariamente un male.
È un concetto che va metabolizzato ed accettato.
La vita va avanti ed è comunque una cosa bellissima.

Il finale mi ha in realtà infuso nuove speranze.
Di come, dopotutto, la vita prosegua e che i sogni si possono realizzare anche se soli.

In retrospettiva, ho trovato più tristi le scene in cui finalmente l’amore dei protagonisti si era concretizzato e veniva mostrato in tutta la sua genuinità e bellezza.
Una bellezza abbagliante e difficile da definire e cogliere.
Questo è ciò che mi ha fatto male: non capire.
La mancanza di esperienze tanto straordinarie non mi ha permesso di comprendere qualcosa che meritava di essere apprezzato.
Perché prima di quelle sequenze, per quanto trapelassero dei sentimenti, tutto era intrattenimento.
Quando i sentimenti sono poi fioriti e divenuti concreti, il film è mutato in forme che sfuggono alle mie conoscenze.
Lì, La La Land mi ha fatto male, laddove io non potevo comprenderlo.
Colpa della sua perfezione nel mostrare quanto l’amore possa essere bello.

The Interview – ovvero: come una amica tenta di coinvolgermi sperando di farmi diventare più social qui su WordPress, invano.

Ringrazio Ophelia per avermi coinvolto in questa iniziativa. Ha dovuto scrivermi privatamente per farmi presente che mi aveva taggato perché neanche sapevo che ci fosse una funzione di tag.

Lo faccio soprattutto perché mi sento in colpa a non aver postato più nella dopo i traumi del finale di Sherlock da cui mi sto gradualmente riprendendo.

Cominciamo.

The Interview – Tag

Le regole sono semplicissime. Io scriverò dieci domande alla quale tutti i blog che nomino dovranno rispondere (se hanno piacere a farlo ovviamente) attraverso un articolo da pubblicare citando l’ideatrice del tag (Fall in “Books”) e nominando a loro volta altri blog (almeno tre) che dovranno continuare la catena.

Le domande rimangono le stesse ma sarà interessante leggere ogni volta le risposte di ognuno.

1 – Quanti anni hai e in che città vivi?
Ostia, quasi 24 anni.

2 – Studi o lavori?
Magari.

3 – Dicci un tuo pregio e un tuo difetto.
Riccio e spettinato.

4 – Qual è il tuo libro preferito? (se ne hai uno)
La Guida galattica per Autostoppisti.

5 – Cos’è per te la lettura?
Il miglior modo per impiegare energie e tempo.

6 – Se dovessi scegliere solo tre libri da portare con te in un’isola deserta, quali sceglieresti?
La Guida Galattica per autostoppisti. Triplice copia perché non si sa mai con la sabbia, l’acqua, ‘na cosa e l’altra…

7 – Sei brava/o ai fornelli o preferisci mangiare?
Cucinare mi piace quanto mangiare e mangiare è più appagante e soddisfacente quando si cucina.
Faccio una pasta col tonno che fermate.
(no davvero, la faccio meglio di te. Sicuro.)

8 – In quale città ti piacerebbe vivere?
In Scandinavia o in un paesino del Centro Italia (Umbria o Marche)
Ma tanto dico così poi in realtà non me ne andrei mai da Ostia.

9 – Qual è l’ultimo viaggio che hai fatto?
Un pomeriggio a Velletri per un compleanno. Un’oretta di treno.
Grazie Chiara la sacher era buonissima.

10 – Perché hai deciso di aprire un blog?
Per creare il mio piccolo macrocosmo in cui scrivo dimenticandomi che le scemenze che riporto qui possono in realtà leggerle tutti.

Non ho nessuno da taggare ma immagino un futuro con più follower che hanno immagini di copertina con una tazza di cioccolata fumante ed un libro davanti la finestra, il tutto rigorosamente sfumato e colorato come le copertine di After, aventi inoltre il loro blog su Tumblr in cui condividono citazioni di Sylvia Plath e Anaïs Nin oltre alle foto con quelle tipe di cui non si inquadra la faccia che indossano quei maglioncini tipo marroncino cioccolata o la tipa a gambe incrociate che legge sul letto e ha il volto coperto dal libro.
Tipo.
Se vi rispecchiate in questa descrizione consideratevi taggati.

Recensione NO SPOILER Sherlock 4×03 The Final Problem

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Prima di iniziare a scrivere, ho dovuto fare un lungo respiro.
Non è infatti facile riuscire a parlarne ma c’è il desiderio convulso, irrefrenabile di doversi esprimere riguardo ciò che si è visto.
Innanzitutto, è un episodio pressoché perfetto.
Mea culpa per aver dubitato di Moffat e Gatiss nella recensione del primo episodio.
I dubbi però vennero già efficacemente dissipati nel secondo appuntamento.
E in questo season finale sono confluite tutte le emozioni trascinate sino ad oggi, straripando in un torrente di disperazione, di strazi e di nuove speranze.
Potrebbe definirsi non solo un perfetto finale di stagione, ma anche una perfetta chiusura della serie.
Seppur non si escluda un proseguimento di Sherlock, questo potrebbe rappresentare uno degli adii più ben auguranti e raffinatamente eseguiti per una serie televisiva, tanto che per quanto ci sia ovviamente il desiderio di continuare lo show, sarebbe quasi un peccato disturbarla di nuovo.

Un’ora e mezza di tensione costante, tra manipolazioni emotive e psicologiche non solo per i protagonisti ma anche per gli spettatori. Ancora una volta Sherlock dovrà affrontare le sue emozioni, con lo spettro di Moriarty che continuano ad aleggiargli intorno, stavolta assieme allo spettro di un passato di cui non ha memoria.
Mai un attimo di tregua, con nervi tesi come corde di violino e pizzicate con maestria dagli archetti narrativi. Ne esce una melodia straziante, con vibrazioni da pelle d’oca.
Un susseguirsi di test eseguiti assieme a Mycroft e Watson, in cui si distaccano nette le loro personalità. Un gioco sadico a cui sembra impossibile vincere e in cui troveremo coinvolti innocenti e persone care a Sherlock, inserito all’interno di un labirinto mentale in cui il trio si muove come topi smarriti alla ricerca di un’uscita e che soltanto la freddezza, l’istinto e la velocità di pensiero prevarranno.

Una esecuzione magistrale, da applausi a scena aperta per uno dei migliori episodi che io abbia mai visto, non solo della serie ma di qualsiasi serie.

Recensione NO SPOILER Una serie di sfortunati eventi – Stagione 1

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Fui davvero entusiasta fin dall’annuncio che ufficializzava la produzione della serie.
Lo ero sopratutto perché a prendersene carico sarebbe stata Netflix che ero certo avrebbe curato al meglio gli interessi della trasposizione televisiva dei romanzi.
Aspettative elevate sin da subito considerando l’inclusione nel cast di Neil Patrick Harris – star delle 9 stagioni di How I Met Your Mother nei panni di Barney Stinson, carismatico e inguaribile provolone della serie -, chiamato ad interpretare il conte Olaf.
Mai scelta poteva esser più azzeccata a parer mio.

Una Serie di Sfortunati Eventi era confermata per il 2017, ma non mi aspettavo un rilascio così prematuro, approdando nel palinsesto già a Gennaio. E non è stata scelta una data a caso per la messa in onda: Venerdì 13, da sempre considerato un giorno sventurato.
Eppure, non lo sarebbe stato dato che Netflix stava per offrirci una delle serie più attese del nuovo anno.

La sensazione che viene immediatamente trasmessa allo spettatore è quella di ritrovare il Tim Burton degli anni 80/90 ma anche il Wes Anderson odierno: Una Serie di Sfortunati Eventi è infatti un perfetto distillato di stili che si amalgamano e coesistono perfettamente nel suo ecosistema televisivo, non componendo magari uno stile originalissimo ed unico ma che certamente riesce ad esser apprezzabile perché già caro e riconoscibile allo spettatore.
Il tono e l’umorismo sarcastico e pessimistico è stato estrapolato dai libri di Lemony Snicket e trovo che l’opera sia stata adeguatamente riprodotta per una trasposizione televisiva. Ogni romanzo è stato raccolto in due episodi, racchiudendone quattro in questa prima stagione. Se si manterrà lo stessa formula, la serie dovrebbe proseguire per altre due stagioni – di cui, la seconda è già confermata.

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Una Serie di Sfortunati Eventi è un intrattenimento per lo più rivolto agli spettatori più giovani, considerato che i romanzi sono indirizzati ai ragazzi tra gli 8 ai 14 anni; per quanto io la ritenga un’ottima serie tv anche per gli adulti, libera dalle puerilità e i cliché che possono contraddistinguere l’intrattenimento per gli adolescenti, potrebbe comunque non piacere a tutti i “grandi” che magari si aspettavano qualche contenuto più maturo.
Inutile pretenderlo considerando il target a cui è rivolto ma soprattutto appurando che Lemony Snicket riesce a mantenere un sapiente equilibrio di contenuti per poter essere apprezzato dal pubblico di tutte le età, favorendo ovviamente i più giovani.

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Un intrattenimento alternativo, con personaggi bizzarri di cui spicca tra tutti il Conte Olaf il quale, pur di metter le mani sull’eredità degli orfani Baudelaire, si dimostrerà un discutibile trasformista, grottesco e malvagio, venendo puntualmente smascherato dall’ingegnosità dei bimbi a cui da la caccia, riuscendo però a farla sempre franca.
Per quanto possa risultare cupo nelle atmosfere e fatalista nel suo incipit, non riesce mai esser angoscioso o inadeguato anche per gli spettatori più piccoli che invece sapranno apprezzarlo e appassionarsi alle sventurate avventure dei Fratelli Baudelaire.
Ed io, a quasi 24 anni, l’ho davvero amato.

Recensione NO SPOILER Sherlock 4×02 The Lying Detective

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Mi sono dovuto ricredere dopo quel che scrissi nella precedente recensione.
Bocciai l’esordio di Sherlock con toni disfattisti seguiti da burrascosi presagi per il futuro della serie.
Ma devo rimangiarmi le mie parole, confutando in prima persona ciò che dissi settimana scorsa.

Moffat rimette le carte in gioco con un caso davvero appassionante e coinvolgente, esplorando la fragile psiche di Sherlock.
Dopo gli eventi del primo episodio col sacrificio (necessario, come mi espressi già, ai fini della narrazione) di Mary, viviamo le instabilità di Sherlock e Watson.
Il primo prosegue con la sua dipendenza dalla droga, causandogli una visione alterata ed offuscata della realtà (rappresentativa la scene surreale che richiama l’interpretazione di Cumberbatch in Doctor Strange).
Il secondo intraprenderà la terapia, continuando a vedere Mary, la quale rappresenterà una sorta di Grillo Parlante per il marito che ancora deve accettare la sua scomparsa.

In quest’episodio ci viene mostrato un villain subdolo e dal sorriso grottesco, straordinariamente interpretato da Toby Jones.

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Un nuovo caso per il dinamico duo, a tu per tu col serial killer, seguendo uno sviluppo di nuovo lineare dopo il confusionario susseguirsi di scene che caratterizzò The Six Thatchers.
Schemi semplici ma deliziosamente raffinati, tornando allo stile e la classe che rappresentò Sherlock nelle stagioni passate, con tutta la maturità accumulata in quattro stagioni. 
Grandi colpi di scena che confluiranno nel prossimo appuntamento, assicurandoci un season finale al caldiopalma.
Moffat e Gatiss ce l’hanno fatta ancora, confezionando un episodio che smentisce qualsiasi critica derivata dal precedente. Ed un intrattenimento così di qualità non ce lo godevamo da tempo.