Recensione NO SPOILER Una mamma per amica – di nuovo insieme

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Guardare serie televisive assieme a mia madre mi ha sempre condotto verso scelte inaspettate – e magari anche discutibili – sin da quando ero più piccino.
Grazie a queste influenze materne, il mio curriculum può considerarsi variopinto, con sfumature di rosa tinteggiate dal trascorso televisivo ereditato.
Deformazione professionale.

Sapere che Netflix stava lavorando ad una nuova serie di Una mamma per amica, con la reunion del cast, mi ha mandato in brodo di giuggiole.
Ogni tentativo di contenere l’entusiasmo è stato vano per quanto ne sia probabilmente valsa la perdita di quel briciolo di credibilità che mi rimaneva. Ma poco importa.
C’è chi va su di giri per uno psicopatico che spacca il cranio ad un poveretto con una mazza da baseball, c’è chi scalpita per vedere le Gilmore di nuovo insieme.

Ci troviamo in un’epoca in cui il passato bussa alle porte del presente (e del futuro); un passato recidivo, con corpi putridi rinvenuti da ambiziosi necromanti appartenenti alle emittenti televisive che, con il loro oscuro rituale, tentano di replicare e riaffermare il successo dei tempi che furono.
Generalmente questi grandi ritorni risultano essere fallimentari, constatando che era meglio non disseppellire le salme delle glorie passate.
Non è il caso delle Gilmore.

Questa nuova stagione de Una mamma per amica riesce a rinnovarsi, adattandosi agli standard odierni senza però alterare la sua natura, riuscendo ancora a mantenere il ritmo incalzante che contraddistinse la serie in passato. Ci si perde (ancora) negli incomprensibili e frizzanti sproloqui dei suoi personaggi – in particolar modo di Rolelai -, ai cui si assiste confusi ma divertiti, di cui ci si sente entusiasti se se ne comprendono i ricercati riferimenti a quella mistica cultura televisiva, musicale e dello spettacolo a cui le Gilmore riescono ad attingere, smitragliando battute su battute in cui ci si sente partecipi e integrati seppur tentare di seguirli sembra un processo inconcludente e infruttuoso.
Le Gilmore sono trascinati e coinvolgenti come sempre.
La serie si libera di qualsiasi misticismo televisivo con personaggi perfettamente imperfetti che prendono scelte sbagliate, incomprensibili ma umane. Si perdono in chiacchere spesso ridondanti trascurando la realtà.

Lorelai non crescerà mai, continuando con testardaggine col suo atteggiamento ribelle, sarcastico ed anticonformista, non riuscendo a capire che forse sarebbe il momento di smetterla giunta ormai a 50 anni.
Rory è una ragazza promettente ma non riesce a decidere il suo percorso della vita, vagando da un impiego all’altro senza fissa dimora, pernottando da familiari col consueto supporto della madre. Prevale però l’insicurezza e l’indecisione, la mancanza di maturità per effettuar il passo decisivo verso l’età adulta – seppur abbia già 32 anni.

Le Gilmore risultano essere entrambe smarrite ma hanno la fortuna di poter ritrovare l’equilibrio grazie ai punti di riferimento nella loro vita. Questo ruolo è principalmente interpretato dalla nonna di Rory – madre di Lorelai – la quale, seppur appaia austera e vada incontro ad inevitabili conflittualità con la figlia, alla fine riesce sempre a fornire un aiuto concreto e far presente la realtà ad una Rolelai spesso svampita e fin troppo ostinata per comprendere ed accettare i suoi consigli.

In questi quattro appuntamenti da 90 minuti ciascuno, avremo modo di rivedere Stars Hollow in tutta la sua incantevole semplicità, ritrovando tutti i personaggi che caratterizzarono la piccola cittadina del Connecticut.
Molto è accaduto in questi anni di assenza seppur la storia e la cittadina non hanno subito sviluppi che stravolgono il contesto fedelmente riprodotto. La serie si prende comunque il tempo per reintegrare lo spettatore del passato all’interno del suo contesto, in un processo che neanche possibilità di esser attuato perché ci si sentirà immediatamente a casa, come se non se ne fosse mai andato.
La curiosità di rivedere molti dei personaggi è senz’altro forte ma la serie saprà scoprire con calma le sue carte, giocandole sapientemente a tempo debito – non vi preoccupate, rivedrete TUTTI.

Gilmore Girls è un progetto che riesce ad essere ambizioso pur mantenendo il suo inconfondibile stile, inserendo nuovi contesti e innovazioni lasciando integra la tradizione della serie. A distanza di anni, la sensazione è quella di assistere ad una naturale evoluzione di un serial che non è mai invecchiato – o che è invecchiato bene, che non ha bisogno di escogitar artifizi narrativi per riprendere la storia da dove l’avevamo lasciata.
Seppur la serie abbia cessato di trasmettere dopo sette stagioni, è come se per tutto questo tempo la vita a Stars Hollow non si sia fermata, mantenendo la sua armonia e la sua magia, brulicante di vita, in un micromondo costantemente in fermento nei suoi perfetti equilibri.

Le Gilmore sono tornate alla riscossa con il loro travolgente umorismo, le rassicuranti atmosfere, riuscendo a mio modesto avviso ad accontentare i fan che nutrivano molte aspettative per questo ritorno.
E dopo questa prima, nuova stagione, non possiamo che sperare in un prossimo rilascio al più presto dato il cliffhanger con cui si chiudono i quattro episodi.
Roba che Twin Peaks scansate.

Recensione (in breve) NO SPOILER Dirk Gently – Agenzia di investigazione olistica Stagione 1

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Il 2016 è stato un anno prolifico di serie televisive per Netflix.
Gli utenti del servizio di streaming americano hanno potuto far scorpacciata di intrattenimento sempre vario, tra nuove proposte e seguiti di serie già affermate.
Soprattutto le novità hanno rimpinzato il catalogo del sito, offrendo stimoli inediti ai suoi abbonati.
Una delle sorprese dell’ultimo anno è stata sicuramente Dirk Gently, serie composta da 8 episodi tratta dai romanzi di Douglas Adams – già autore de La Guida Galattica per Autostoppisti.

Nei suoi rocamboleschi sviluppi apparentemente generati dalla casualità, ci si accorge di come la narrazione funzioni alla perfezione, proponendo un quadro generale strambo ed ambizioso, che per quanto inverosimile ed assurdo stimola lo spettatore a proseguire con la visione, sia per genuina curiosità e sia per malizia, nell’attesa di trovare qualche imperfezione o cavillo che possa guastare un marchingegno narrativo di per sé imperfetto, sovraccaricato di elementi e costantemente in bilico tra la ridicolezza e la genialità.
Ogni avvenimento è premeditato e viene giustificato e spiegato a tempo debito, per quanto possa risultare folle e fuori contesto.
Dirk Gently sorprende e coinvolge nel suo caos in cui tutto poi viene riordinato, nel suo mix di umorismo, azione, investigazione e di inaspettata – oltre che inusuale – violenza, dissipando gradualmente ogni dubbio e rendendo fluida una narrazione azzardata e confusionaria, ma deliziosamente imprevedibile.
Non si sa mai cosa aspettarsi, ed è questo il punto di forza della serie.

Seppur sia tratta dai romanzi di Adams, Dirk Gently si permette di stravolgere il contesto ideato dall’autore, ereditandone però l’appeal e l’approccio accattivante in una rivisitazione contemporanea fedele per i toni eccentrici e geniali che ricordano le opere dello scrittore britannico.
E il tributo ad Adams l’ho notato, per caso, osservando la durata di ogni episodio: 42 minuti.
Poteva esserci numero più azzeccato?

In conclusione, Dirk Gently non è una serie perfetta ma saprà esserla nel momento in cui vi farete coinvolgere dall’irrefrenabile vortice di eventi assurdi che vi attrarranno allo schermo come una calamita.
Ci si chiede costantemente: “Fin dove arriveranno?” “Riusciranno a far quadrare tutto?”.
E le risposte saranno sorprendenti seppur – non per rovinare nulla – saranno generate da un escamotage forse necessario a poter alimentare una macchina narrativa che sarebbe sennò finita in panne.

 

 

Recensione NO SPOILER Sherlock 4×01: The Six Thatchers

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Speravo davvero che la sensazione che stava accrescendo dentro di me non venisse confermata.
Forse è presto per fare gli scongiuri del caso ma già da “The Abominable Bribe” aleggiava un senso di imperfezione laddove Sherlock rappresenta(va?) per me una serie pressoché perfetta.
Prima dello special natalizio, dovetti considerare la terza stagione più fiacca delle precedenti seppur essa mantenga comunque elevato l’intrattenimento.
L’oscuro sentore che la coppia Moffat/Gatiss stesse perdendo colpi era uno spettro che aleggiava col suo gelido tocco…
Purtroppo il problema di Moffat – ma in generale lo è per qualsiasi sceneggiatore – è che ha difficoltà a mantenere i suoi stessi standard dopo tot. stagioni.
Accadde per Doctor Who e succede anche qui con Sherlock, la sua creatura.
Devo inoltre riuscire ancora a comprendere la sua sadica e contorta tendenza a sfoltire gradualmente il cast laddove lui non riesce mai, in alcun modo, a generare pathos attorno ai decessi dei personaggi.
Anche in questo caso riporto l’esempio di DW – e chi ha visto sa – dove non riuscì a generare un minimo di drammaticità, neanche per la consueta, inevitabile rigenerazione del Dottore.
Accade dunque anche qui in Sherlock in cui viene tolto dai giochi un elemento che, fin dalla sua apparizione, è divenuto zavorra.
Per chi ha visto l’episodio o letto semplicemente i romanzi di Doyle, avrà capito a chi mi riferisco.
Tutto succede nella sua artificiosa, innaturale accidentalità, seguendo schemi imposti dall’eredità del romanzo e per necessità narrative perché dopotutto era un taglio che andava fatto, il prima possibile.
Questo procedimento sa di tempo sprecato, nell’esser stato spettatore di un quadro narrativo inutilmente intricato e faticosamente contorto oltre che fuorviante.
Il primo episodio sa di occasione sprecata, considerata la breve durata della serie. Se ne esce confusi e in parte delusi dopo 90 minuti di sequenze che si susseguono alla rinfusa, considerabili riempitive per colmare la durata dello show.
Seppur manchino ancora due appuntamenti per 3 ore complessive di show, sembra si sia già inteso attorno a chi ruoterà la quarta stagione. Questa attitudine non mi convince, dato lo scarso interesse che ho verso questo personaggio che sinceramente non ho mai considerato granché credibile.
Non vorrei troncare una serie come Sherlock sin dal suo primo appuntamento con la nuova stagione, ma ciò che presagisco da questo inizio non mi convince e accentua la mia paranoia riguardo la chiusura di un ciclo che, prima o poi, deve pur giungere.

Guru Meditation #2: “Fattore temporale”

Potrei iniziare questo articolo con una massima scontata ma mai banale, appropriata ma ormai inflazionata:

Il tempo è relativo.

È una regola universale che vale anche nel mondo videoludico .

Titoli intramontabili come Super Mario Bros. scindono da qualsiasi vincolo temporale, perché eterni, sempreverdi.

Quando trent’anni fa venne rilasciato il primo storico Super Mario Bros. su Famicom (da noi in occidente conosciuto come NES), probabilmente non si era consci di come, quel mondo costellato di pixel celasse la formula di un elisir dell’immortalità, un algoritmo semplicemente perfetto di un gioco capace di intrattener e divertire tuttora, per quanto intanto di progressi se ne sono fatti parecchi dall’era dell’8-bit.

Siamo nell’era del videorealismo, del 4K, dei 60 fps, di tutte quelle terminologie tecniche di cui ci si riempie la bocca ma che in sostanza a nulla servono. Sono standard che ormai si pretendono e si danno per scontati, in una costante ed estenuante ricerca della perfezione grafica, divenuta oramai monomania fine a se stessa.

Ciò che conta è il divertimento e un gioco, per quanto virtualmente possa offrire un quantitativo incalcolabile di intrattenimento, finisce quando giunge la noia e la ripetitività. Torniamo dunque al fattore temporale, facendo delle distinzioni.

Esiste longevità e temporalità.

La longevità è relativa alla durata effettiva di un gioco, di quanto esso offra intrattenimento al giocatore, spesso concludendosi con i titoli di coda dell’avventura principale.

La temporalità è un concetto più romantico ed astratto: è la vita effettiva di un gioco, relativa all’interesse del pubblico.

Super Mario Bros. lo si può concludere anche in un pomeriggio (longevità) ma il suo fattore temporale lo rende un gioco che, per quanto potrebbe risultare antologico e desueto, possiede un fattore temporale che lo eleva ad essere, per l’appunto, intramontabile.

È un classico, e vale così per ogni forma d’arte: che si tratti di Dostoevskij per la letteratura o di Hitchcock per il cinema, anche i videogiochi non sfuggono al concetto di classico.

Parlando dei tempi odierni, il concetto di temporalità è piuttosto effimero, per quanto paradossale possa sembrarlo.

Rispetto al passato, le pubblicazioni videoludiche sono costanti, con release divenute oramai giornaliere, anche grazie al mercato indipendente e al mondo digitale, laddove prima non esisteva questa possibilità.

I videogiochi odierni si incentrano sulla giocabilità online, funzionalità che ha sempre esteso la longevità di un titolo e conseguenzialmente anche la sua temporalità.

Il paradosso sta proprio in questo; per quanto il gioco in rete dovrebbe concedere virtualmente un quantitativo di ore tendenti all’infinito, con tutte le possibilità e le funzionalità che mette a disposizione dei giocatori, subentra un fattore umano: la noia.

L’utenza è certamente cambiata e di conseguenza il mondo videoludico, che ruota sempre più velocemente. I videogiocatori sanno stufarsi presto anche di un sistema di gioco che dovrebbe poterli intrattenere a lungo. Eppure, il pubblico esigente, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, pur di soddisfare le proprie, cangianti esigenze, va altrove.

Perché?

Siamo una generazione incontentabile che vanta una libreria di titoli nauseantemente estesa, con tutti i prodotti acquistati con sufficienza durante gli sconti digitali. Impulsi di oniomania che ci hanno condotto ad aver anche centinaia di titoli senza saperli gestire, lasciandoli lì e giocandoci “quando si avrà tempo”. Chissà quanti di quei prodotti, magari acquistati anche con coscienza e sincero interesse saranno poi portati a termine e considerati, non si sa quando.

I progetti a “lungo termine” di un gioco online sono spesso traditi dalla stessa utenza che richiede longevità sui giochi in cui va ad investire, tra il prezzo del titolo in questione e i season pass truffaldini del caso, che poi inesorabilmente non può e/o non vuole più dedicar tempo al suddetto progetto. L’esempio lampante è The Division, con tutto l’hype che trascinò con sé come si confà ad Ubisoft nel presentare le sue perle, prodotti commerciali preconfezionati e propinati all’utenza media che spende, la stessa che annualmente fa la fila al Gamestop per Assassin’s Creed in quella che reputo una sindrome di Stoccolma inconscia. Il titolo della società francese propone un sistema di gioco unicamente online, con il progressivo sblocco delle aree di una NY serragliata e talebana. I primi mesi mi sembrano furono piuttosto prolifici per il gioco con una utenza presente ed attiva. Poi il tracollo. Ubisoft sembrava ambisse ad un progetto che si estendesse sul piano temporale come è riuscito ad Activision con Destiny, ormai giunto al terzo anno, con un pubblico sorprendentemente fedele. Una fedeltà tradita e malriposta, per quanto in The Division l’utenza sia tuttora presente e certamente se lo acquistate – o se lo possedete già, accendete la console – , non troverete un mondo deserto. Però, potrete constatare come l’utenza sia ridotta drasticamente rispetto ai primi mesi di gioco. Sembra però che non basti questa disponibilità, laddove invece The Division mantiene le sue funzionalità in game. Ma al pubblico non va più come prima di mettercisi sù. Perché? Perché si intrattiene con altro, perché il concetto di temporalità, per quanto è stato considerato nei piani di Ubisoft, è sfuggito, s’è dissipato.

Un mondo infame, ma che continua a puntare insistentemente sul multiplayer dove forse l’utenza gradirebbe incentrarsi sull’esperienza in singolo che forse a molti manca.

Laddove prima la funzionalità online era un servizio aggiunto ad un titolo che offriva il single player, ora è il contrario: l’esperienza in singolo è messa in secondo piano rispetto al gioco in rete con gli altri giocatori.

Forse è bene che si inizi a tornare sui propri passi, riproponendo esperienze individuali ai videogiocatori di cui si sente l’assenza. Le esperienze di gioco in rete sono senz’altro esaltanti ma hanno generato una generazione di videogiocatori competitivi che talvolta non sembrano saper gestire una formula di intrattenimento e di sfida così ampio.

Il multiplayer online ha certamente cambiato il mondo del videogioco, permettendoci di realizzare quel sogno inizialmente concretizzato da Sega col Saturn, prima console casalinga ad usufruire del servizio in rete per poter giocare con altre persone in tutto il mondo. Ora lo si da per scontato, ma il grande passo venne fatto oramai 20 anni fa dalla società giapponese. Un servizio adoperato da pochi all’epoca (considerando soprattutto una comparazione con l’utenza odierna) certo, però fu l’inizio di un percorso che permise ai giocatori di tutto il mondo di condividere le proprie esperienze videoludiche. Un sogno che forse è stato coltivato da ogni sviluppatore del settore prima di oggi, prima di Sega. Oggi è la consuetudine, la prassi, il naturale concetto di videogioco instillato nell’immaginifico collettivo, anche ai “babbani” che non sono addentrati nel mondo dell’intrattenimento elettronico. Eppure, per quanto sia straordinario, sembra non si abbia considerato di come avere un’utenza sempre attiva e presente su ogni progetto che proponga un servizio online non è possibile seppur, sorprendentemente, si riescano ad incontrare giocatori anche su server dimenticati. A me sembra che si generino deserti, lasciati incustoditi dopo anni di attività, di come si tenti di mantenerli attivi per quella poca, fedele utenza. Mondi estesi ed esplorabili abbandonati o disabitati. E di come, inesorabilmente, anche i titoli a cui giochiamo oggi, prima o poi verranno lasciati al caso. Il processo avviene velocemente, considerando come alcuni giochi, per quanto non vengano abbandonati, abbiano una temporalità limitata, perché la tendenza richiama l’attenzione e l’interesse su altri prodotti.

Capita anche che, un gioco uscito lo scorso anno sia già considerato relativamente “vecchio“. Succede che si dimentica in fretta, in un mondo videoludico che ci tartassa di informazioni e che guarda sempre al futuro, lasciandoci smarrire il concetto di temporalità.

 

 

Guru Meditation #1:”Pubblicità”

Ricordo, con una lacrimuccia che scende sul viso, l’epoca delle riviste di videogiochi.

Sì, so benissimo che vengono pubblicate ancora e che riescono a ritagliarsi tutt’oggi il loro piccolo spazietto edicola tra i periodici hi-tech da turbonerd 40 enni.

Ma il potere mediatico che avevano fino a 10 anni fa non era lontanamente paragonabile al ruolo marginale e ininfluente che ricoprono oggi.

Oramai, se si vuole conoscere il parere su un videogioco, ci basta cercar su Google, veder un voto su Metacritic o consultando i soliti siti specializzati e costruirci la nostra opinione, senza neanche leggere la recensione del gioco che ci “interessa“. Con un rapido sguardo, tramite un voto, abbiamo già deciso il destino di quel videogioco, se acquistarlo o no.

Magari si decide di prenderlo in sconto, prefissando già il prezzo che saremo disposti a pagare per averlo ed aggiungerlo nella kilometrica lista di giochi acquistati in digitale, comprati senza particolari attenzioni perché propinati a prezzi troppo allettanti.

Questo processo di giudizio potrebbe portarci direttamente ad effettuar una ricerca su Youtube, evitando di aprir pagine di siti specializzati, vedendo i video gameplay del titolo da sottoporre alla nostra superficiale analisi e bollandolo, non prestando neanche massima attenzione a quei pochi minuti in cui il gioco si mostra. Ancor più influente e repentino è il giudizio se si osserva il video dello Youtuber di fiducia, prendendo per oro colato ogni sua parola. Tutto ciò in un manciata di minuti. Abbiamo metabolizzato le informazioni ed elaborato una rassicurante ma approssimativa critica, quanto basta magari per sfoggiarla sui social network o i forum.

Purtroppo si fa presto  a bollare un titolo, senza neanche averlo provato, senza aver letto interamente una recensione o addirittura senza aver visto completamente un video del gameplay. All’epoca delle riviste videoludiche invece, si leggevano recensioni anche di giochi per cui non si nutriva particolare interesse, ma lo si faceva per onestà intellettuale o comunque per rimanere informati ed aggiornati, per sviluppare delle proprie considerazioni.

In una generazione ipertecnologica in cui è possibile effettuar questo processo di approssimazione anche dal cellulare con disarmante celerità e freddezza, ci si accorge di come l’utenza rischi di compromettere il processo creativo nel mondo videoludico. Infatti, non potete immaginare quanto potere possa aver anche un semplice like, se sommato alla moltitudine di altri milioni di utenti che hanno espresso la loro approvazione o dissenso tramite un solo click.

Anche la sola visualizzazione può contare, indipendentemente da quanta attenzione si sia prestata alla notizia o al teaser.

Ora, non è che ciò debba considerarsi un butterfly effect secondo cui, aprir un link di un video o no, condiziona il destino di suddetto prodotto.

Però, gli sviluppatori ripongono fiducia e danno particolare importanza al parere in rete. O quantomeno, anche se non sembra, può far prevedere l’ipotetico successo o flop commerciale di un titolo.

Un esempio di questa aggressione anonima e passiva è ciò che è accaduto a Federation Force. Presentato all’E3 del 2015, Federation Force ha la sola sfortuna di esser stato presentato ad una conferenza complessivamente deludente per l’utenza Nintendo e di esser un Metroid Prime senza Samus Aran. Tutti i fan aspettano da tempo il ritorno della cacciatrice di taglie intergalattica, da anni assente dai radar e di cui non si sa nulla su un capitolo che la riveda protagonista. La disapprovazione è stata sfogata dunque così, con un torrente di dislikes in una quantità considerevole rispetto agli apprezzamenti. Senza considerare poi i commenti che esprimono marcato disappunto, ampiamente non giustificato o per nulla argomentato.

Federation Force rischiò dunque, ancor prima della sua uscita, di esser un flop preannunciato e che conseguenzialmente potrebbe portar delle perdite alle casse di Nintendo.

Potrebbe sembrar esagerato ma in questo caso, il nuovo Metroid Prime ha rischiato il tracollo dal momento in cui si posiziona sullo scaffale dei negozi laddove la situazione di Nintendo, sul piano commerciale, sembra non è particolarmente rosea negli ultimi tempi (e parlo da aficionados della grande N). Ed effettivamente, oramai uscito nei negozi, Federation Force non rappresenta un successo commerciale, anzi.

Stessa situazione, ma ben più catastrofica, vede protagonista il prossimo Call of Duty che ha ricevuto milioni di pollici versi. In questo caso, rappresenta l’atto di coscienza di tutta quella utenza che, facendo capolino al Gamestop ogni anno per preordinare CoD e ritirando al momento dell’uscita lo stesso titolo dell’anno scorso, peggiorato (o divenuto più assurdo, dipende di pareri) ad ogni nuova pubblicazione, manifesta il proprio disappunto e la frustrazione di sborsar ogni volta 70€ per un facsimile dell’anno precedente appartenente ad una serie arrivata alla frutta. E l’esito delle vendite potrebbe risultar disastroso e affossar un brand che ha permesso ad Activision di rimpinguar considerevolmente il proprio portafogli con entrate sicure ogni anno.

L’utenza è dunque divenuta spietata, sfogando frustrazioni represse con queste forme passive di aggressione mediatica. Rassicurano e salvaguardano l’utente frustrato perché non implicano complicazioni e lo si fa dietro uno schermo. Una utenza che non si cura dei giudizi e che sente di potersi esprimere liberamente, indipendentemente dal peso del giudizio, elargendo con nonchalance commenti inappropriati.

Ci troviamo in una generazione in cui il pubblico è sovrano e l’industria dipende dai suoi capricci. In passato, era invece il contrario: le esigenze del consumatore erano conformi al prodotto che gli veniva fornito ma gli sviluppatori erano capaci di accontentare il pubblico. I giochi venivano fatti certamente per passione e anche per vendere ovviamente, ma si intraprendevano ugualmente percorsi inediti, inesplorati, tentando anche l’azzardo e cercando l’innovazione. Veniva chiesto ai giocatori di riporre fiducia e la fiducia era ripagata.

Ora l’utenza sembra screditar l’operato delle software house e gli sviluppatori, con calma zen, rispondono e lavorano umilmente per offrir un prodotto che possa accontentare un pubblico incontentabile. Mi sembra però che non ci si senta di reagire verso un pubblico pretenzioso ed esigente da cui le società dipendono. I fatturati sono composti da numeri che oramai non si possono più ignorare e il pubblico è sovrano.

In questa apocalittica visione, ci sono comunque molte realtà videludiche che hanno generato un legame armonioso con la propria utenza, ma si tratta pur sempre di società che sviluppano indipendentemente; isole felici dall’utenza pacifica che da il suo sostegno. Gli invasati della rete sono comunque sempre in agguato per screditare un titolo con la loro cultura spiccia.

Prima, l’ardua sentenza relativa al giudizio di un videogioco era responsabilità che spettava al settore mediatico e i lettori si affidavano alle proprie fonti. Per scegliere se acquistare un gioco, si leggeva la recensione, si guardavano gli screen stampati su carta e si immaginava. L’elemento immaginazione s’è completamente dissipato dal momento in cui si ha accesso alla rete e si possono osservare i gameplay di qualsiasi gioco, anche con playthrough che ci rivelano ogni anfratto di un titolo sottoposto a questa visione indiscreta. In un certo senso, questa possibilità rovina un po’ tutto. In passato, la scrupolosa selezione di un gioco avveniva con l’entusiasmo di far un salto nel vuoto, anche con un gioco che magari era stato ben giudicato, con tanto di voto altisonante ma che poteva comunque non piacerti e non convincerti. Era una scoperta, una sorpresa, verso l’ignoto o quel che comunque si presupponeva potesse offrire, a quel che s’era idealizzato leggendo la recensione. Trovo che questo fattore, correre il “rischio” pur affidandosi al proprio sesto senso, le considerazioni personali e il parere che si era costruito leggendo e raccogliendo pareri e informazioni vattelapescacome fosse ciò che davvero rendeva speciale ogni acquisto. Si andava in negozio, si vedeva il gioco nella vetrinetta, chiedevi al negoziante che apriva il vetro, lo faceva scorrere con un suono grattuggiante e ti prendeva quella custodia incellophanata, scintillante e finalmente lo vedevi al di là di quel confine etereo, idealizzato. Pagavi e te ne andavi a casa soddisfatto, entusiasta, spellicolandolo nel tragitto verso casa, non vedendo l’ora di giocarci.

Ora è davvero difficile vivere queste emozioni considerando che al momento dell’uscita di un gioco si conoscono vita, morte e miracoli, anche senza volerlo. Un web indiscreto e guastafeste che lascia trapelare ogni sorta di informazione e indiscrezione.

Vedete l’esempio di Pokémon Sole & Luna. Uscirà a Novembre ma praticamente si hanno nuove notizie ogni giorno al riguardo, di qualsiasi genere. Prima, per le info, dovevi attender ogni mese la rivista che usciva in edicola e magari, data la cadenza relativa alla pubblicazione e i tempi per la stampa, erano pure notizie “vecchie” o comunque non avevano l’immediatezza di oggi, abituati a considerar vecchie anche le notizie di ieri.

Un mondo videoludico che gira velocissimamente, che con i mezzi odierni permette certamente di esser sempre informati ma con una quantità soverchiante di notizie per lo più superflue, ridondanti e capaci anche di rivelar troppo, di guastar quel pizzico di magia che prima rendeva tutto più speciale, più vago, lasciando al giocatore il piacere della scoperta.