Ha senso parlare ancora di Killer Application?

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Killer application indica un titolo che sia rappresentativo ed esclusivo per la console a cui appartiene, tanto da portare l’utenza ad acquistare il suddetto sistema anche solo per quel gioco.

Il termine è ormai decaduto, considerando la dilagante presenza di multipiattaforma.

Eppure, le esclusive esistono ancora.

Cos’è cambiato rispetto al passato?

Inizialmente, ciò che le console tentavano di emulare era l’esperienza del cabinato. Tale trasposizione appariva più complessa di quel che potrebbe sembrare oggi, tenendo da conto la quantità di contenuti che riuscivano ad essere incorporati nella versione arcade.

Non sempre infatti queste conversioni avvenivano fedelmente, ma poteva essere comunque motivo di vanto riuscire a supportare un sistema complesso su una console casalinga, comprimendo in una cartuccia le emozioni della sala giochi, da vivere comodamente in salotto.

In questo caso, le killer app venivano rappresentate da traslazioni dei titoli arcade più gettonati. Ma esistevano anche titoli esclusivamente legati ad una console.

 

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Potremmo definire Super Mario Bros. come la prima killer application.

Dato il sistema di gioco innovativo ed immediato che proponeva, la sua esclusività per NES veniva notevolmente rafforzata.

Il dilagante successo di Super Mario portò Nintendo ad affidarsi alla sua nuova mascotte, per quel che tutt’oggi rappresenta uno dei personaggi videoludici più prolifici, esclusivamente legato alla società di Kyoto.

L’antagonismo nacque con l’avvento di Sonic in cui SEGA generò una spietata guerra contro Nintendo per il dominio del mercato.

Attraverso slogan accattivanti e decisamente eloquenti, la società rappresentata dal porcospino blu sottolineava ogni suo successo in ambito videoludico, soprattutto per quel che concerne il progresso tecnologico.

 

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SEGA bombardò a tappeto le riviste del settore con advert sprezzanti e provocatori. Ma era anche una guerra di esclusive laddove l’ago della bilancia pendeva in base ai prodotti più ambiti e bramati che venivano supportati dalle console delle rispettive case di produzione.

La valutazione sull’acquisto di una console – dal costo importante – veniva proprio effettuato in base a ciò che la line-up offriva.

Sonic correva a velocità impressionante esclusivamente su console SEGA. Oltre il porcospino blu, la società di Tokyo offriva al pubblico altri titoli ricordati con piacere dalla sua utenza, quali Street of Rage, Golden Axe, Phantasy Star, Space Harrier etc.

Nintendo, dal canto suo, proponeva delle esclusive ritenute delle killer app, sopravvissute ad ogni generazione successiva: The Legend of Zelda, Metroid, Kirby, Yoshi etc.

Lungi da me dal prendere posizione su questo storico confronto, è però interessante considerare come all’epoca ogni titolo potesse avere un peso che influiva notevolmente sulla bilancia.

Rapportato ad oggi, ogni confronto appare sterile e privo di contenuti.

Forse non ci accorgiamo che siamo in un’epoca videoludica in cui l’acquisto di una console a discapito di un’altra può risultare pressoché ininfluente per la scelta dei titoli.

Le line-up delle console presenti attualmente sul mercato sono sostanzialmente identiche.

Ora l’acquisto di una console è principalmente dettato da altri fattori che possono scindere dal concetto di esclusive, riducendosi spesso a semplici preferenze. Prima invece, andava scrupolosamente analizzato ogni fattore per non precludersi dei giochi a cui si era interessati.

Nell’attuale generazione, l’ultima killer app per cui è dipeso l’acquisto di una console a discapito di un’altra è stata Bloodborne.

In una fase di costruzione in cui Microsoft e Sony stavano iniziando ad inserire i propri tasselli per comporre un mosaico che mostrasse le potenzialità della propria console all’utenza, Sony fece leva sul successo della serie Souls aggiudicandosi un’esclusiva di From Software che fosse addirittura uno stand-alone, pur discostandosi per lo stile dai precedenti sviluppi mantenendo ugualmente la formula di gioco plasmata con l’esperienza maturata.

Ciò bastò per far vertere l’attenzione del pubblico verso Playstation.

Microsoft stava rilasciando – ed aveva in programma – più esclusive di Sony, ma qui veniamo alla definizione di killer application.

Facendo un confronto che potreste ritenere improprio, Sunset Overdrive è un’esclusiva Microsoft; Bloodbourne è una killer app Sony.

Ora viene dato per scontato – se non addirittura dovuto – che Sony rilasci con frequenza produzioni importanti che siano esclusive. Eppure in un confronto generazionale diventato univoco neanche sarebbe necessario ingraziarsi l’utenza con rilasci così imponenti.

Già nella generazione precedente, in cui iniziò la promiscuità con il passaggio sulle console Microsoft di quelle che furono esclusive Sony – vedi Final Fantasy e Devil May Cry -, il concetto di killer app iniziò a divenire evanescente.

Le esclusive però sussistevano e caratterizzavano le rispettive piattaforme. Sopratutto la società americana cercava di rimpinguare la line-up di Xbox 360 con progetti che rimanessero rilegati alla sua console.

Purtroppo molte furono esclusive. Temporanee.

Anni dopo passarono – in sordina – anche su PS3. L’obiettivo di Microsoft era tentare di conquistare l’utenza giapponese, da sempre restia a prestare attenzione a Xbox seppur ci fossero state titoli appetibili come Ninja Gaiden e Dead or Alive.

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Nel 2006, Microsoft decise di lanciare Lost Odyssey, il primo (e unico?) titolo per 360 ad entrare nella top settimanale di vendite in Giappone. Traguardo più complesso di ciò che possa sembrare, considerando la tendenza del pubblico nipponico.

Fu uno dei tanti progetti finanziati a peso d’oro da Microsoft. Seguirono una sfilza di jrpg sviluppati dalle major giapponesi: Blue Dragon, Infinite Undiscovery, The Last Remnant etc.

Poi ci fu il sodalizio tra Microsoft e Capcom che portò – oltre alle trasposizioni di Resident Evil, Street Fighter ed altri importati brand – alla produzione di esclusive quali Dead Rising e Lost Planet, scomodando una mente creativa del mondo videoludico quali Keiji Inafune.

Bastò a Microsoft per innalzare le vendite in Giappone? Niente affatto.

360 fu un flop commerciale in Oriente con timidi incrementi di vendite giunti in concomitanza con i rilasci dei titoli più accattivanti per il suo esigente pubblico. Ad oggi rimane una line-up deliziata da perle nipponiche apprezzate più dai giappofili occidentali piuttosto che dal pubblico giapponese.

Microsoft credeva di aver prodotto delle killer app? È probabile, giudicando dai costi e i team di sviluppo implicati nei progetti, in quel che sembra uno scellerato e disperato tentativo di conquistare una fetta di pubblico certamente influente.

Piuttosto andò decisamente meglio con l’avvento di Gears of War per quel che fu il gioco che spostò gli equilibri.

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GoW era la killer app per eccellenza dato che incarnava la potenza grezza della nuova generazione, messa al servizio di un blood feast scatenato dal testosterone.

A parer mio, neanche Halo ebbe questa risonanza seppur Microsoft fu abile nell’alimentare l’hype dopo il roboante annuncio all’E3 2006.

Con Gears of War, Microsoft confermò il suo status quo, approfittando della iniziale defiance derivata del lancio tardivo di PS3 sul mercato occidentale. Sony arrancava e le esclusive erano ancora flebili nella prima parte del suo ciclo vitale.

Produzioni come Heavenly Sword non bastarono. Dovette giungere Metal Gear Solid 4, epilogo della serie di Kojima, a richiamare l’attenzione verso una console che aveva già i riflettori puntati su di sé ma che necessitava di giustificare il costo di 599€, a fronte dei prezzi competitivi della “Wii60 family”, ovvero: l’acquisto di 360 e Wii equivaleva a quella di una Playstation 3.

L’unica, vera killer app di Sony della generazione precedente rimane The Last of Us, giunta soltanto nel 2013 quando PS4 era già stata annunciata.

Eppure, senza quelle che possono essere ritenute delle killer app granitiche – o comunque, senza la frequenza nei rilasci a cui siamo stati abituati oggi – Playstation 3 chiuse con un bilancio record, producendo oltre 80 milioni di unità.

Quale fu la killer app più influente della storia videoludica?

Il 1997 è identificabile come l’anno zero dell’epoca videoludica moderna dato il rilascio di Final Fantasy VII. La storia narra che il progetto di Squaresoft (attuale Square Enix) non sarebbe potuto essere integrato in una cartuccia (del Nintendo 64), considerata la capienza del progetto. Perciò Square decise di migrare su Playstation che accolse uno dei titoli più importanti di sempre in 3 (!!) CD.

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Si chiuse qui la partnership tra Nintendo e Square dopo 6 capitoli sviluppati in esclusiva su NES e SNES.

Nintendo ebbe comunque delle esclusive importanti. Basti pensare a Super Mario 64 ed Ocarina of Time, per citarne giusto un paio.

Non sappiamo come sarebbe cambiata la storia se Final Fantasy VII fosse stato rilasciato su Nintendo 64. Di certo, l’esclusività del titolo Square ha inciso notevolmente sul successo di Playstation, prima che giungessero altre killer app come Crash e Spyro. Solo ora FFVII arriverà su una console Nintendo.

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Ed ora?

Dopo questo viaggio a ritroso del tempo, ha senso oggi parlare di killer application? Non più. Il significato ormai si è gradualmente dissolto.

Se prima le console si affannavano nel tentare di coprire il divario con il PC, ora questo distacco non è più percepibile, indipendentemente dalle prestazioni che possono essere raggiunte da un computer.

Trovo che fossero due mondi diametricalmente opposti già da prima. Erano comunque presenti molti titoli condivisi ed ogni piattaforma di gioco aveva le sue esclusive, invidiate ma compensate da altri nomi che non facevano pentire dell’assenza di un PC o di una console casalinga.

Anche Half Life 2 arrivò su Xbox attraverso una miracolosa conversione laddove si credeva fosse impossibile. Così come, seppur con un po’ di attesa, giunsero nello stesso periodo GTA, Devil May Cry 3, Resident Evil 4 ed altri titoli ambiti dai possessori di un PC.

Ora che le barriere sono abbattute e che le release sono costanti, per tutte le tasche e rese accessibili, le killer app risiedono in quei titoli che ci portano ad un acquisto di una piattaforma, senza considerare l’esclusività.

 

 

 

Ora che non sono più innamorato.

Fine di una storia d’amore.

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L’articolo non contiene alcuno spoiler su Kingdom Hearts III e i capitoli relativi alla serie.

 

Ricordo di quando dovetti scegliere tra PS4 e Xbox One.

Anche se ora sembra una scelta scontata, nel 2013 poteva rivelarsi più ardua del previsto, considerando che entrambe mostrarono le loro potenzialità nella generazione precedente, risultando accattivanti nel nuovo rilascio sul mercato.

Optai per PS4. “Kindom Hearts III” bastò come motivo.

Volevo essere sicuro di acquistare la console giusta per quel che fu il mio nuovo amore.

 

Infatuazione.

Kingdom Hearts mi rapì e ci riuscì pur avendo sviluppato una maturità relativa alle mie altre esperienze videoludiche.

Se con molti giocatori riuscì a far breccia nel cuore in una età spensierata come l’adolescenza, con me l’infatuazione avvenne in una fase più avanzata in cui ormai credevo che non fosse possibile. Sorprendendomi.

Kingdom Hearts mi ammaliò proprio con la sua semplicità e spensieratezza. Esplorando i mondi Disney assieme a Sora, Pippo e Paperino, si torna bimbi. E non importa quanti anni abbiate.

Un’esperienza esaustiva e complementare per qualsiasi appassionato.

Finché…

Smarrimento.

Le prime fratture si crearono dopo avermi incantato con la prima avventura in Kingdom Hearts.

L’assuefazione da quella magia, dal più ingenuo infantilismo sfociano in un bivio in cui è difficile scegliere la giusta direzione.

Kingdom Hearts inizia a dislocarsi in ramificazioni narrative in cui bisogna coglierne un frammento in ogni titolo collegato alla serie.

Nulla va dato per scontato. Il primo ostacolo è Chain of Memories, originariamente rilasciato su Game Boy Advance.

Ricordo ancora il trambusto che ne conseguì quando Square Enix decise di rilasciare un nuovo capitolo di KH sulla console portatile di Nintendo.

Fu una mossa sconsiderata che portò molti fan ad accorrere per l’acquisto di un Advance con relativa cartuccia di Chain of Memories.

Fortunatamente, il mio recupero della serie è postumo a quella traslazione da PS2 a GBA. Ciò non toglie che, pur avendolo a disposizione nella Collection per PS3, io abbia deliberatamente deciso di proseguire verso il secondo capitolo.

Quanto è costata questa mia leggerezza?

Perdere l’amore.

Si inizia con Roxas. Dov’è Sora? E Pippo? Paperino?

Il disorientamento iniziale è incoscientemente dovuto alla mancata esperienza con Chain of Memories.

Decido comunque di proseguire, affidandomi all’esperienza con il titolo che saprà darmi spiegazioni durante l’avventura.

Invece accrescono dubbi. C’è lo smarrimento. Nasce la frustrazione.

Kingdom Hearts II fallì con me. O forse fui io a fallire con lui.

Quello che considerai un titolo facoltativo era in realtà un punto di congiunzione tra il primo e il secondo capitolo.

Mea culpa.

Decido di recuperare Chain of Memories dopo l’esperienza disastrosa con KHII pur di non recidere i legami che mi tenevano flebilmente unito a Kingdom Hearts. Volevo rimanere aggrappato a quel mondo.

Chain of Memories fu sconfortante. Ero entusiasta di tornare a visitare i mondi del primo capitolo se non fosse che mi parve un dejavu claudicato da un sistema di combattimento tedioso.

Per quanto tentai di arginare questo ostacolo relativo al gioco di carte che caratterizzava i combattimenti, fu inutile.

Ad oggi, Chain of Memories è incompleto, abbandonato. Mi arresi.

Kingdom Hearts mi chiese troppo e forse fui io debole nel non riuscire a seguire questo amore, ad esaudire le sue richieste.

La dislocazione della serie, sconsideratamente avvenuta su ogni console del settore per ingarbigliare ulteriormente una storia già labirintica per natura, è una gogna che i fan di Kingdom Hearts hanno deciso di portare perché persi in un amore che li ha resi ciechi – e che non so quanto abbia ripagato la loro fedeltà.

È complicato barcamenarsi nell’impresa anche se Kingdom Hearts è stato racchiuso in raccolte che includono ogni capitolo della serie.

Dire basta è difficile perché si ha la sensazione di perdersi un grande amore che difficilmente potrà essere trovato altrove.

Si è ancora incantati da ciò che fu (e si idealizza) di Kingdom Hearts. Si riscopre la magia, si cerca compulsivamente ogni frammento celato qua e là nelle sue innumerevoli trasposizioni pur di comprendere la sua cosmogonia.

Il distacco dal secondo capitolo al nuovo Kingdom Hearts III è comparabile a delle fatiche di Ercole in ambito videoludico-affettivo.

L’addio.

Non acquisterò Kingdom Hearts III.

Anche se posso risultare melodrammatico, è un investimento emotivo che ora (e forse mai) potrò permettermi.

Non basta neanche la lunga, agognata attesa che ha preceduto il suo rilascio.

Inutile dire che intraprendere questa avventura abbia un costo e delle responsabilità che comportano un recupero delle precedenti avventure della saga, a mio parere insostenibili.

Videoludicamente sono antivideoludiche. Come è antivideoludico doversi sorbire dei video esplicativi che riassumano e spieghino la storia finora pur di non farsi trovare impreparati di fronte gli innumerevoli riferimenti che saranno presenti nel terzo capitolo.

È una Sindrome di Stoccolma che porta ad esasperarsi per la ricerca dei pezzi di un mosaico inutilmente intricato, attraverso esperienze di gioco legnose, come se dovessimo lesinare quei frammenti narrativi che mancano e che desideriamo vedere.

Square Enix poteva rendere più fruibile e meno stressante l’accesso e conseguente sviluppo della serie, ma il quadro complessivo è catastrofico.

Parlando da amante ferito e deluso, di chi forse interpreta il ruolo della volpe che dice che l’uva è acerba, è bene mantenere il ricordo di ciò che fu bello finché durò, di quei pomeriggi spensierati passati a tornare bambini, a riscoprirsi tali, a mantenere intatta quella parte di sé sognatrice.

Kingdom Hearts è la più bella e romantica storia che mai verrà narrata ed udita.

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Guru Meditation #2: “Fattore temporale”

Potrei iniziare questo articolo con una massima scontata ma mai banale, appropriata ma ormai inflazionata:

Il tempo è relativo.

È una regola universale che vale anche nel mondo videoludico .

Titoli intramontabili come Super Mario Bros. scindono da qualsiasi vincolo temporale, perché eterni, sempreverdi.

Quando trent’anni fa venne rilasciato il primo storico Super Mario Bros. su Famicom (da noi in occidente conosciuto come NES), probabilmente non si era consci di come, quel mondo costellato di pixel celasse la formula di un elisir dell’immortalità, un algoritmo semplicemente perfetto di un gioco capace di intrattener e divertire tuttora, per quanto intanto di progressi se ne sono fatti parecchi dall’era dell’8-bit.

Siamo nell’era del videorealismo, del 4K, dei 60 fps, di tutte quelle terminologie tecniche di cui ci si riempie la bocca ma che in sostanza a nulla servono. Sono standard che ormai si pretendono e si danno per scontati, in una costante ed estenuante ricerca della perfezione grafica, divenuta oramai monomania fine a se stessa.

Ciò che conta è il divertimento e un gioco, per quanto virtualmente possa offrire un quantitativo incalcolabile di intrattenimento, finisce quando giunge la noia e la ripetitività. Torniamo dunque al fattore temporale, facendo delle distinzioni.

Esiste longevità e temporalità.

La longevità è relativa alla durata effettiva di un gioco, di quanto esso offra intrattenimento al giocatore, spesso concludendosi con i titoli di coda dell’avventura principale.

La temporalità è un concetto più romantico ed astratto: è la vita effettiva di un gioco, relativa all’interesse del pubblico.

Super Mario Bros. lo si può concludere anche in un pomeriggio (longevità) ma il suo fattore temporale lo rende un gioco che, per quanto potrebbe risultare antologico e desueto, possiede un fattore temporale che lo eleva ad essere, per l’appunto, intramontabile.

È un classico, e vale così per ogni forma d’arte: che si tratti di Dostoevskij per la letteratura o di Hitchcock per il cinema, anche i videogiochi non sfuggono al concetto di classico.

Parlando dei tempi odierni, il concetto di temporalità è piuttosto effimero, per quanto paradossale possa sembrarlo.

Rispetto al passato, le pubblicazioni videoludiche sono costanti, con release divenute oramai giornaliere, anche grazie al mercato indipendente e al mondo digitale, laddove prima non esisteva questa possibilità.

I videogiochi odierni si incentrano sulla giocabilità online, funzionalità che ha sempre esteso la longevità di un titolo e conseguenzialmente anche la sua temporalità.

Il paradosso sta proprio in questo; per quanto il gioco in rete dovrebbe concedere virtualmente un quantitativo di ore tendenti all’infinito, con tutte le possibilità e le funzionalità che mette a disposizione dei giocatori, subentra un fattore umano: la noia.

L’utenza è certamente cambiata e di conseguenza il mondo videoludico, che ruota sempre più velocemente. I videogiocatori sanno stufarsi presto anche di un sistema di gioco che dovrebbe poterli intrattenere a lungo. Eppure, il pubblico esigente, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, pur di soddisfare le proprie, cangianti esigenze, va altrove.

Perché?

Siamo una generazione incontentabile che vanta una libreria di titoli nauseantemente estesa, con tutti i prodotti acquistati con sufficienza durante gli sconti digitali. Impulsi di oniomania che ci hanno condotto ad aver anche centinaia di titoli senza saperli gestire, lasciandoli lì e giocandoci “quando si avrà tempo”. Chissà quanti di quei prodotti, magari acquistati anche con coscienza e sincero interesse saranno poi portati a termine e considerati, non si sa quando.

I progetti a “lungo termine” di un gioco online sono spesso traditi dalla stessa utenza che richiede longevità sui giochi in cui va ad investire, tra il prezzo del titolo in questione e i season pass truffaldini del caso, che poi inesorabilmente non può e/o non vuole più dedicar tempo al suddetto progetto. L’esempio lampante è The Division, con tutto l’hype che trascinò con sé come si confà ad Ubisoft nel presentare le sue perle, prodotti commerciali preconfezionati e propinati all’utenza media che spende, la stessa che annualmente fa la fila al Gamestop per Assassin’s Creed in quella che reputo una sindrome di Stoccolma inconscia. Il titolo della società francese propone un sistema di gioco unicamente online, con il progressivo sblocco delle aree di una NY serragliata e talebana. I primi mesi mi sembrano furono piuttosto prolifici per il gioco con una utenza presente ed attiva. Poi il tracollo. Ubisoft sembrava ambisse ad un progetto che si estendesse sul piano temporale come è riuscito ad Activision con Destiny, ormai giunto al terzo anno, con un pubblico sorprendentemente fedele. Una fedeltà tradita e malriposta, per quanto in The Division l’utenza sia tuttora presente e certamente se lo acquistate – o se lo possedete già, accendete la console – , non troverete un mondo deserto. Però, potrete constatare come l’utenza sia ridotta drasticamente rispetto ai primi mesi di gioco. Sembra però che non basti questa disponibilità, laddove invece The Division mantiene le sue funzionalità in game. Ma al pubblico non va più come prima di mettercisi sù. Perché? Perché si intrattiene con altro, perché il concetto di temporalità, per quanto è stato considerato nei piani di Ubisoft, è sfuggito, s’è dissipato.

Un mondo infame, ma che continua a puntare insistentemente sul multiplayer dove forse l’utenza gradirebbe incentrarsi sull’esperienza in singolo che forse a molti manca.

Laddove prima la funzionalità online era un servizio aggiunto ad un titolo che offriva il single player, ora è il contrario: l’esperienza in singolo è messa in secondo piano rispetto al gioco in rete con gli altri giocatori.

Forse è bene che si inizi a tornare sui propri passi, riproponendo esperienze individuali ai videogiocatori di cui si sente l’assenza. Le esperienze di gioco in rete sono senz’altro esaltanti ma hanno generato una generazione di videogiocatori competitivi che talvolta non sembrano saper gestire una formula di intrattenimento e di sfida così ampio.

Il multiplayer online ha certamente cambiato il mondo del videogioco, permettendoci di realizzare quel sogno inizialmente concretizzato da Sega col Saturn, prima console casalinga ad usufruire del servizio in rete per poter giocare con altre persone in tutto il mondo. Ora lo si da per scontato, ma il grande passo venne fatto oramai 20 anni fa dalla società giapponese. Un servizio adoperato da pochi all’epoca (considerando soprattutto una comparazione con l’utenza odierna) certo, però fu l’inizio di un percorso che permise ai giocatori di tutto il mondo di condividere le proprie esperienze videoludiche. Un sogno che forse è stato coltivato da ogni sviluppatore del settore prima di oggi, prima di Sega. Oggi è la consuetudine, la prassi, il naturale concetto di videogioco instillato nell’immaginifico collettivo, anche ai “babbani” che non sono addentrati nel mondo dell’intrattenimento elettronico. Eppure, per quanto sia straordinario, sembra non si abbia considerato di come avere un’utenza sempre attiva e presente su ogni progetto che proponga un servizio online non è possibile seppur, sorprendentemente, si riescano ad incontrare giocatori anche su server dimenticati. A me sembra che si generino deserti, lasciati incustoditi dopo anni di attività, di come si tenti di mantenerli attivi per quella poca, fedele utenza. Mondi estesi ed esplorabili abbandonati o disabitati. E di come, inesorabilmente, anche i titoli a cui giochiamo oggi, prima o poi verranno lasciati al caso. Il processo avviene velocemente, considerando come alcuni giochi, per quanto non vengano abbandonati, abbiano una temporalità limitata, perché la tendenza richiama l’attenzione e l’interesse su altri prodotti.

Capita anche che, un gioco uscito lo scorso anno sia già considerato relativamente “vecchio“. Succede che si dimentica in fretta, in un mondo videoludico che ci tartassa di informazioni e che guarda sempre al futuro, lasciandoci smarrire il concetto di temporalità.